Se il desiderio di mantenere diritti fondamentali, come la libertà di espressione e di manifestazione, da parte della cittadinanza di Hong Kong è sacrosanto, d’altra parte è fondamentale evitare lo spargimento di sangue velatamente minacciato dal Partito Comunista Cinese (PCC), pronto a mobilitare il proprio esercito per soffocare il dissenso
Dopo un anno di disordini, momentaneamente sospesi dall’emergenza sanitaria, a Hong Kong sono riprese le proteste pro-democrazia. Se il desiderio di mantenere diritti fondamentali, come la libertà di espressione e di manifestazione, da parte della cittadinanza di Hong Kong è sacrosanto, d’altra parte è fondamentale evitare lo spargimento di sangue velatamente minacciato dal Partito Comunista Cinese (PCC), pronto a mobilitare il proprio esercito per soffocare il dissenso e ribadire la propria legittima - è il caso di ricordarlo- sovranità sulla città.
In situazioni così complesse è necessario evitare le polarizzazioni di chi dipinge il mondo nelle sole tonalità del bianco e del nero. Non esistono buoni e cattivi ma aspettative e prospettive diverse. Le richieste dei manifestanti sono sacrosante ma la prospettiva polarizzante con cui Pechino guarda a Hong Kong dipinge le proteste come movimenti eversivi sostenuti da potenze straniere. Questo punto di vista, che sicuramente ha anche a che fare con la cultura paranoica di un regime autoritario, trae origine dalla nascita del regime cinese e si scontra con lo status speciale di Hong Kong. La rivoluzione maoista ha ricevuto infatti il suo impeto fondamentale dagli anni di occupazione e sottomissione, sociale, economica e culturale, che la Cina ha subito dalle potenze europee e dal Giappone prima dell’indipendenza.
L’ultima scintilla che ha riacceso le proteste è la nuova legge sulla sicurezza nazionale voluta da Pechino e imposta a Hong Kong. Essa ha lo scopo di bloccare le attività “terroristiche” a Hong Kong, di vietare gli atti di «sedizione, sovversione e secessione» e le «interferenze straniere negli affari locali». In realtà, potrebbe servire a reprimere qualsiasi atto che possa essere considerato come minaccia dal Partito Comunista Cinese. I gruppi di attivisti potrebbero essere duramente colpiti, i tribunali potrebbero stabilire lunghe pene detentive per le violazioni e agenzie di sicurezza cinesi potrebbero operare apertamente in città.
Come affrontare la situazione? Personalmente, forse per deformazione professionale, quando affronto situazioni complicate, mi rifugio sempre nel diritto. Questa è la prospettiva della risoluzione su Hong Kong che abbiamo votato settimana scorsa. Il testo condanna la nuova legge, non per motivi politici, ma perché, eliminando de-facto l’autonomia della città, contrasta con la Legge Fondamentale di Hong Kong che stabilisce il modello “una Cina, due sistemi”. Non solo la Legge Fondamentale, di carattere costituzionale, incorpora la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, le cui prescrizioni sono inconciliabili con i dettami del nuovo provvedimento adottato da Pechino.
Giuliano Pisapia