Che il dibattito in corso sullo Stato di diritto non sia frutto di una posizione ideologica oppure materia di discussione riservata a specialisti del diritto o finanche una pura e semplice tenzone retorica, lo si capisce tanto dalla posta gioco: sistemi di poteri e di valori contrapposti che si danno battaglia sul terreno dell’autonomia della magistratura e su quello del principio che stabilisce il primato del diritto comunitario rispetto a quello nazionale; quanto dalle condizioni sempre più precarie e preoccupanti in cui lavorano i giudici in Polonia, le cui azioni sono messe sotto tutela, la loro vita controllata, il loro operato posto sotto attacco dal potere esecutivo.
Qual è il problema che sta scavando un fossato di rivendicazioni e polemiche a prima vista inconciliabili tra la Polonia e l’Unione europea? Esagera chi denunzia che siamo di fronte a una sfida radicale all’unità dell’ordinamento giuridico europeo, mettendo in discussione il fondamento stesso dell’Unione?
L’oggetto della controversia, sotto gli occhi di tutti, riguarda l’indipendenza della magistratura, che - al pari della libertà di informazione e della tutela delle minoranze - è uno dei pilastri dello stato di diritto. Quest’ultimo è, infatti, l’ordinamento giuridico che si fonda su alcuni principi ai quali corrispondono altrettanti diritti inviolabili, riconosciuti a tutti i cittadini europei, fin dal 2000 con la Carta di Nizza poi recepita nel TUE, come fondamento dell’Unione europea (dignità, libertà, uguaglianza, solidarietà, cittadinanza e giustizia).
Lo stato di diritto non riconosce poteri al di sopra della legge e presuppone la separazione dei poteri (legislativo, esecutivo e giurisdizionale): se uno di questi tre poteri tende a prevaricare sugli altri, salta il principio della separazione e, con esso, lo stato di diritto. Il Paese in cui ciò accadesse mostrerebbe di voler imboccare una deriva autoritaria e antidemocratica incompatibile con la sua permanenza nell’Unione.
E’ un tema di rilievo decisivo per il futuro dell’Unione, che interessa tutti i cittadini europei perché mette in discussione uno di quei principi essenziali sopra ricordati, in questo caso l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge e la tutela dei loro diritti davanti a un giudice indipendente e imparziale.
L’oggetto del contendere comunque non è nuovo, ha radici lontane, risale già a qualche anno fa, quando in Polonia furono messe in cantiere e rapidamente realizzate una serie di riforme della Giustizia, che hanno indebolito fortemente l’indipendenza dei giudici, che, voglio ripeterlo, non è un privilegio di casta ma una garanza per i cittadini.
Basta leggere la cronaca delle agenzie stampa per rendersi conto della graduale ma costante emanazione di leggi, promosse dell’esecutivo polacco, a spese del potere giudiziario, che senza eccezione hanno esposto i giudici a un controllo politico del governo, che a passo spedito si è infiltrato nell’organizzazione del sistema giudiziario, con nomine pilotate e interdizione di criticarne le decisioni.
Per chi nutrisse ancora dubbi in merito, raccomando l’ultimo rapporto del GRECO del Consiglio d’Europa, che monitora la prevenzione della corruzione in relazione alle istituzioni pubbliche, il quale ospita anche un esame approfondito sul pericolo che corre, di fatto in aumento dal 2016 in poi, l’indipendenza della giustizia in Polonia.
Ma oggi assistiamo con inquietudine a una temibile accelerazione delle decisioni che mirano a controllare e mettere al guinzaglio la magistratura e che fanno ritenere per nulla esagerato l’allarme cui accennavo all’inizio. Un sistema occhiuto di minacce e lusinghe, affidato a una inedita sezione disciplinare istituita presso la Corte Suprema e composta di magistrati graditi al potere politico (che può bloccare la nomina di quelli sgraditi da parte del Consiglio nazionale della magistratura), che punta creare nel corpo giudiziario polacco un duplice effetto, dissuasivo e conformativo. Dissuasivo dal far prevalere le norme del diritto europeo rispetto a quelle interne in caso di contrasto; conformativo rispetto alle pretese governative.
Che questo uso strumentale della giustizia da parte della politica costituisca una plateale violazione dello stato di diritto è ormai una certezza, che agita le acque della politica delle istituzioni comunitarie ed appare così tanto grave da suscitare persino dubbi sulla permanenza della Polonia in seno all’Unione europea.
Su questo tema si gioca una partita vitale per le sorti stesse dell’Unione Europa, ancorata e fondata sul primato del diritto europeo e sulla difesa dello stato di diritto. L’ultima sfida di dirompente effetto nei rapporti con l’Unione europea, risale solo a qualche giorno fa e riguarda la sentenza del Tribunale Costituzionale polacco, adito dal premier Mateusz Morawiecki, che ha sancito l’incompatibilità di alcuni regolamenti europei con la Carta costituzionale dello Stato, il che significa nell’interpretazione del diritto ammettere la sua priorità rispetto alle norme di diritto europeo.
Una sentenza che non fa altro che peggiorare il clima di tensione aumentando il divario delle posizioni in campo dei due schieramenti, entrambi consapevoli che tale decisione, oltre a minare i valori comuni europei, indebolisce il processo di integrazione che vincola chi aderisce ai Trattati europei.
La risposta europea non si è fatta attendere: sia la Commissione che il Parlamento hanno reagito con fermezza di principi e durezza di toni nei comunicati ufficiali. La Presidente Van der Leyen, durante il dibattito sullo Stato di diritto, non ha risparmiato giudizi severi sulle reiterate aggressioni legislative nei confronti dei giudici, che traducono in norme sanzionanti la grave minaccia politica, in corso in Polonia, di limitare l’autonomia d’azione giudiziaria ed investigativa della magistratura. Sicché la Commissione sta considerando di intervenire su più livelli con alcuni strumenti giuridici che ha a disposizione, ma vorrebbe attendere prima l’opinione della Corte di Giustizia UE, chiamata al verdetto definitivo dopo i provvedimenti interinali emanati nel luglio scorso contro le leggi “bavaglio”, ai quali la Polonia non si è conformata.
All’orizzonte comunque si profilano già alcune vie legali attraverso cui risolvere il conflitto: l’articolo 7 che sospende il diritto di voto in senso al Consiglio (ma tale dispositivo ha il limite oggettivo di necessitare l’unanimità, mentre Polonia a Ungheria, altro paese sul tavolo degli imputati, di fatto alleate, si proteggono reciprocamente col loro voto rispettivo); la procedura di infrazione che sanziona il Paese che non attua il diritto europeo; l’applicazione del meccanismo di condizionalità, approvato dal Parlamento l’anno scorso, che sospende i fondi provenienti dal bilancio comunitario a quei paesi che violano lo stato di diritto.
Dal canto suo, il Parlamento europeo non è per nulla soddisfatto di come la crisi è stata gestita finora dalla Commissione, guardiana dei Trattati, ma giudicata troppo lenta e attendista nell’attivare il procedimento di congelamento dei pagamenti alla Polonia, sentendosi obbligato ad avviare un’azione legale per mancato adempimento. Un’azione legale che serve al Parlamento non solo per vincere le riluttanze della Commissione a mettere in pratica il Regolamento sulla condizionalità, ma anche per ricordare alla Commissione il proprio ruolo di custode dei Trattati nonché di attestare che la questione necessita anche una valutazione in termini politici e, come tale, da trattare e discutere in sede parlamentare, giustappunto dall’organo politico delle Istituzioni europee.
Che il dibattito in corso sullo Stato di diritto non sia frutto di una posizione ideologica oppure materia di discussione riservata a specialisti del diritto o finanche una pura e semplice tenzone retorica, lo si capisce tanto dalla posta gioco: sistemi di poteri e di valori contrapposti che si danno battaglia sul terreno dell’autonomia della magistratura e su quello del principio che stabilisce il primato del diritto comunitario rispetto a quello nazionale; quanto dalle condizioni sempre più precarie e preoccupanti in cui lavorano i giudici in Polonia, le cui azioni sono messe sotto tutela, la loro vita controllata, il loro operato posto sotto attacco dal potere esecutivo.
Le ragioni di questa impasse istituzionale sono molteplici e radicate nel tessuto sociale, politico ed economico della Polonia, ma a me preme, soprattutto, citarne due in particolare: la prima, di carattere socio-psicologico, riguarda la disillusione dei cittadini polacchi rispetto ai vantaggi e ai benefici attesi dall’Europa; la seconda, di natura politica, si focalizza sull’elemento ideologico dell’esecutivo polacco organizzato su un sistema di valori di identità nazionale antitetici a quelli europei, consacrati nel Trattato sottoscritto anche dal Governo polacco, come il Parlamento ha ricordato nella risoluzione approvata a larghissima maggioranza.
Vale la pena qui di ricordare che la Polonia non è il solo paese ad aver preso la direzione di un antagonismo ideologico rispetto ai principi dell’Unione europea, anche l’Ungheria non è da meno e, guarda caso, l’esecutivo è da anni occupato da un partito di destra, che non solo vanta e promuove un corpo di leggi, ma anche lancia proclami politici di chiara dottrina identitaria nazionalista e sovranista, facendosi beffa del primato del diritto europeo e dei valori a cui è ispirato. Infine, mi pare che questo scontro lacerante tra l’Unione europea e la Polonia sia (piuttosto) un fenomeno sempre meno isolato, specchio di una tendenza che attraversa, come un fiume carsico, le identità culturali delle regioni europee, che richiede da parte nostra vigilanza e spirito critico al fine di assumere decisioni politiche strategiche per il rilancio dell’Unione, la nostra Unione, sulla strada dell’integrazione politica.
Franco Roberti